Chi Sono
Isabella Corda in arte DolcissimaBastarda, rope stylist e body artist, è l’unica bondager donna italiana ad aver reso lo shibari un’arte nel senso non artigianale e non elitario del termine. Infatti, dopo aver seguito un percorso di formazione personale all’inizio legato strettamente al mondo del bdsm, stancatasi ben presto del classico shibari costrittivo, ha intrapreso una strada alternativa rispetto alla tradizione giapponese ortodossa tramite una decisa rimescolanza di generi e stili. Ha avuto così origine una sorta di fashion bondage che l’artista porta, a mo’ di performance, nei locali, nei festival e negli happening artistici d’Italia e d’Europa, riscuotendo sempre maggiore attenzione fra gli addetti ai lavori. La bellezza, la compostezza di natura estetica che traspira dalle sue opere di body art fanno pensare ad una sorta di classicismo rivoluzionario; un vero e proprio ossimoro originato dal suo personalissimo modo di insalamare un corpo umano fin nei più intimi recessi della pelle. L’artista definisce in questi termini il proprio lavoro: “l’antica arte di legare i corpi, shibari o kimbaku, proviene dal Giappone e attualmente si pratica in Occidente soprattutto in ambienti fetish o bdsm: essa consiste in legature effettuate a scopi costrittivi. Perversione? Forse. Certamente si tratta di un atto d’amore. Provocare piacere a chi ti chiede piacere attraverso la dominazione. Non esistono altre regole nel bondage se non quelle che il bondage ha dato a se stesso. […]”. E tuttavia, “Quello che mi contraddistingue è stato l’incontro e la fusione delle mie corde con altre dimensioni artistiche (videoart, musica, moda, pittura) che mi hanno stimolata ad andare oltre quel mondo settoriale del bdsm e del fetish, dove le pratiche di bondage con le corde sono solitamente utilizzate.” Impiegando il feticcio della canapa sulla nuda carne per intrappolarla attraverso la libera ma preordinata composizione di corde e nodi, DolcissimaBastarda si slancia oltre l’angusto ambito della sensualità bdsm per dare luogo ad una vera e propria forma d’arte autonoma. Il risultato delle sue annose ricerche è una forma di body art complessa che non utilizza i fluidi corporei bensì un’estensione, un’espansione esteriore di natura fibrinogena, una sorta di appendice canapacea delle fibre del corpo, dato che le corde archetipiche, per l’essere umano in quanto tale, sono i nervi. Un bondager, in fondo, non fa che porre il fascio dei nervi di canapa in vista su un corpo rigirato come un guanto. I significati simbolici ed estetici che l’artista attribuisce al proprio lavoro riguardano temi importanti come la dicotomia fondante soggetto / oggetto: “è il corpo umano che diventa oggetto. Il soggetto che parla e si muove è la mia corda. Il corpo è essenziale, ma lo sono ancora di più le corde, in grado di trasformarlo, animarlo o immobilizzarlo, costruendo una trama che lo comandi con dolcezza, inebriandolo e facendolo rinascere sotto un’altra forma ed essenza”. Un campo artistico non facile da intraprendere, quello dello shibari, che in Italia sopravvive e si fa largo faticosamente, ma con un senso di composta dignità, fra la diffidenza dell’opinione pubblica e del comune pudore moralistico.
Fra le sue performance più importanti, annoveriamo la partecipazione al TEN di Roma in collaborazione con Francesca Fini, gli interventi in varie edizioni del Ladyfest, presso l’Interiora Horror Fest, presso il London Fetish Weekend, l’evento Alone in the dark 2 e la curatela artistica del festival Accordamenti, ormai giunto alla terza edizione, sorto dalla collaborazione di numerosi artisti dell’entourage romano. Fra gli studiosi che si sono occupati concettualmente del lavoro di Isabella Corda, occorre ricordare l’antropologa Desirèe Pangerc (all’interno del saggio Prigionia e liberazione del corpo: analisi antropologica di un tabù del XXI secolo, contenuto ne Il volo dell’Angelo - Pensare per immagini, a cura di Ferdinando Testa, Bonanno Editore 2011) e Vitaldo Conte (che dedica all’artista diverse pagine all’interno del suo volume Pulsional Gender Art, Avanguardia 21 Edizioni 2011).
Testo di Sonia Caporossi